martedì 17 novembre 2020

Il libro di Marquez (un racconto di Sherzod Artikov)

 


Adoro ottobre. È un tempo piovoso, di bufera di neve e, spesso, è nuvoloso. Le foglie gialle cadono e scricchiolano sotto i piedi; vederle in quella danza porta pace e riposo al cuore. Anche se ieri è stata una giornata molto ventosa, oggi piove. Al tramonto, tutto sembra più tranquillo, dal terreno emerge un odore aspro che, mescolato all’umidità, si estende fino al respiro. Di notte la temperatura scende lentamente e sento il freddo scendere su di me, mentre sono sul balcone. È ora di entrare.

Nel comfort della mia camera contemplo la lunga e grande libreria. Vado verso la libreria e mi fermo un attimo a pensare cosa fare. Non ho voglia di leggere. Mi fa male la testa e il cuore mi batte forte. Un libro è davvero l’ultima cosa che mi aiuterebbe a rilassarmi. Decido di sedermi. Mi ricordo che Nafeesa non mi ha restituito il libro che ha preso in prestito. Esattamente dieci giorni prima, aveva preso “Cent’anni di solitudine”. Da quel momento in poi, non l’ho più vista. Col passare del tempo il mal di testa aumenta. Prendo la medicina con l’aiuto di una birra rinfrescante e una tazza di caffè amaro e ritorno nella mia stanza.

... Nella casa di fronte viveva una vecchia russa. Era morta due mesi prima e quello è stato il momento in cui Nafeesa e la sua famiglia si sono trasferiti lì. Il figlio della signora russa l’aveva venduta a loro.

Il padre di Nafeesa era un militare e lavorava nel complesso militare della città. Lei, se ricordo bene, studiava inglese a scuola. Nafeesa aveva sentito dai vicini che avevo un’interessante biblioteca privata. Non me lo ha mai chiesto direttamente, nemmeno quella volta che ci siamo incontrati per strada. In quell’occasione riuscì solo a farmi un gesto di assenso come saluto. Penso che fosse a disagio nel chiedermi dell’altro. “Posso leggere qualcuno dei tuoi libri?”, mi ha sorpresa, un giorno, formulandomi questa  domanda, apparendo all’improvviso innanzi al mio appartamento. Nessuno mai mi aveva chiesto una cosa del genere. Non ci ho pensato due volte e sebbene mi trovassi in pieno stato di shock la invitai a entrare.

“Hai tanti libri!”

Si guardava intorno allegra come una bambina. Io ero in piedi e in silenzio davanti alla finestra, premendo una sigaretta tra le labbra. Non le avrei detto niente, le avrei permesso di fare le sue domande. Di solito non parlo quando fumo.

“Posso portare con me il libro di Jack London?”, chiese.

Annuii, poi inalai il fumo della sigaretta e le voltai le spalle. Prese il libro ringraziandomi con tutto il cuore.

“Molte grazie! Lo leggerò velocemente!”. Il libro che avevo preso era “Martín Edén”.

 Da allora è venuta tre o quattro volte a settimana. Non parlavamo molto, sembrava sempre un po’ confusa, soprattutto, quando non le prestavo attenzione. Iniziava a conoscere quanto fossi indifferente quando fumavo vicino alla finestra. Per questo, per non disturbare, rimetteva con cura il libro sullo scaffale e se ne andava velocemente.

Alla fine, questo modo di vederci era diventata la nostra routine. Ultimamente, però le cose stavano cambiando. E non capisco bene il perchè. Non fumavo più alla finestra e, al contrario, mi sedevo su una sedia, non togliendole gli occhi di dosso. Lei non aveva più tanta fretta di andarsene: se ne rimaneva lì, davanti alla libreria, come al solito, prendendosi il suo tempo per decidere quale libro leggere. Quel pomeriggio, dopo una lunga pausa, prese “Cent'anni di solitudine”. Lo guardava con grande interesse mentre camminava verso il centro della stanza.

 “Ti piace leggere la letteratura di tutto il mondo?”, le chiesi, osservandola da vicino. Quando si rese conto della domanda e della situazione, arrossì come un pomodoro.

“Sì, di tanto in tanto leggo letteratura internazionale”, disse, cercando di mantenere la calma mentre girava le pagine del libro.

Non era attraente, tuttavia, il suo comportamento gentile, i movimenti fluidi, una calma quasi sicura e, allo stesso tempo, un particolare luccichio nei suoi occhi la rendevano davvero interessante.

“Hai letto tutti quei libri?”

“Quasi”, risposi dopo averla guardata più da vicino.

“Ti invidio”, disse mentre chiudeva il libro.

“Vuoi una tazza di caffè”, le chiesi mentre era pronta per uscire. “Oggi è il tempo perfetto per un caffè”.

Nafessa si mise a guardare fuori dalla finestra aperta, proprio come facevo io. Aveva imparato.

“Beh, se non ti disturba”, rispose lei, ancora confusa.

“Con o senza zucchero?”

“Se puoi, senza zucchero”.

 Il caffè mi fece dimenticare la mia solita misantropia e la mia timidezza. Così iniziai a parlare con entusiasmo dei libri che avevo letto, dei miei autori preferiti. E lei mi ascoltava con attenzione e interesse. Poi lei iniziò a parlare con non meno piacere ed entusiasmo delle sue avventure da lettrice. Ascoltandola, mi stavo rendendo conto del fascino che subiva per un uomo di mondo come ero io. Eravamo come due gocce d’acqua e sentivo sorgere in me quel dolce piacere che non provavo da anni.

 Quando se ne andò, mi ritrovai di nuovo da solo con i miei libri, come sempre. Ero molto confuso, il mio cuore era stordito, perché abituato alla solitudine com’era, stava inziando di nuovo a vagare tra una serie di sensazioni assopite. Per la prima volta dopo tanti anni, mi sentivo profondamente solo, come se fossi circondato da quattro mura totalmente buie. Il giorno dopo, uscendo di casa, vidi Nafessa per strada. Lei e sua sorella stavano andando a scuola. Come al solito, la salutai con un cenno del capo e ci incamminammo in silenzio verso la fermata dell’autobus. Avrei voluto parlarle, ma mi trattenni. Forse, si sarebbe imbarazzata perché c’erano così tante persone intorno a noi. Alla fermata dell’autobus, presi un taxi e lei l’autobus. Lungo la strada, mi ricordai del libro che aveva preso l’ultima volta e mi chiesi se lo avesse già letto. Dentro di me ero sicuro che lo avevo fatto. Dopo quattro giorni senza aver ricevuto sue notizie, al quinto la sua assenza iniziava a torturare la mia tranquillità e la mia anima. Il sesto giorno, contrariamente alla mia natura, il mio cuore si sentiva esplodere e il nervosismo iniziava a farsi sentire. Il settimo giorno, ricominciai a fumare alla finestra, e con calma ero arrivato alla conclusione che leggere questo libro in una settimana era impossibile. Tale convizione mi faceva sentire leggermente più sereno. Ieri il mio stato mentale si era deteriorato così tanto che non riuscivo a concentrarmi sul lavoro. Non pensavo che un libro di 386 pagine si potesse leggere in così tanto tempo. Questo pensiero mi stava perseguitando per tutta la giornata. Probabilmente non ha tanto tempo come me, mi dissi. Dopo pochi minuti, avevo iniziato a pensare che il libro non le piaceva per nulla e davo per scontato che non l’avrebbe mai restituito. Molti dei miei colleghi non erano interessati alla lettura, ad eccezione di Feruza Anvarovna del dipartimento di Risk Management. Feruza avrà sui trentacinque anni, è molto sincera e intelligente. Durante la pausa-lavoro, non potevo far altro che pensare di chiederle qualcosa sul libro di García Márquez.

“Posso chiederti una cosa Feruza Anvarovna?”, in quel momento stava prendendo dei fogli dalla sua scrivania.

“Certo, Humayun”.

“Quanto tempo impiegheresti a leggere un libro di 386 pagine?”, la domanda la sorprese e la fece riflettere per un po’.

“Dipende dal tipo di libro. Se lo trovo interessante, potrei finirlo in 7 giorni. In caso contrario, potrebbe volerci fino a un mese”.

Poco dopo feci la stessa domanda a uno dei miei clienti.

“Se ci provassi, probabilmente lo finirei in due settimane”.

Tornando a casa, feci la stessa domanda al tassista

“Ad essere sincero, non mi interessa leggere”, mi ha detto guardandomi attraverso lo specchietto retrovisore.

Quando entrai a casa, rimasi in piedi nel corridoio, appoggiato al muro senza addentrarmi.

Forse tutto ha un senso, mi sono detto, se Nafessa mi ha visto dalla sua finestra, probabilmente verrà a riportarmi il libro. Rimasi lì ad aspettare 20 minuti, ma nessuno bussava alla porta.

Dalla delusione cocente cercai nelle tasche dei miei pantaloni la scatola delle sigarette per fumare. La scatola era quasi vuota, ma c’era un’ultima sigaretta. Fumare mi fece distrarre un po’. Nel frattempo andai verso la libreria per prendere alcuni dei libri.

Uno di loro aveva 254 pagine e l’altro solo 83. Un terzo ne aveva 124. Decisi di aprire quest’ultimo e di riporre gli altri nella libreria. Inizia a sfogliarlo dall’inizio alla fine e decisi di consigliarlo a Nafessa la prossima volta che ci saremmo incontrati.

 

… Le mie gambe insensibili si muovevano per la stanza. Mi sono appoggiato allo schienale di una sedia. Dopo aver preso le pillole, il mal di testa iniziava a diminuire. Tuttavia, il mio cuore batteva ancora molto forte. Ero con gli occhi chiusi per un momento appoggiato allo schienale della sedia. L’immagine di Nafessa appariva innanzi a me, ancora e ancora. Solo in quel momento avevo compreso che la mia ansia, il mio nervosismo e il mio cattivo umore degli ultimi dieci giorni non erano altro che il risultato dell’attesa.

 

Fin da piccolo mi ero abituato a non aspettarmi nulla da nessuno, ma ora mi aspettavo di rivedere la ragazza. Speravo di rivederla, di ascoltare la sua voce serena mentre mi parlava e riempiva la stanza con quel suo meraviglioso suono. Perché stavo mentendo a me stesso? Dopotutto, che mi importava quanto tempo ci sarebbe voluto per leggere il libro?

Appena mi sono reso conto della verità, nell’accettarla, mi sono messo a ridere. La mia era una risata piena di dolore, desiderio e tristezza. Eppure, continuavo a ridere. La mia voce stava diventando sempre più forte.

Proprio in quel momento, qualcuno stava bussando alla porta. All’inizio non ho fatto molto caso ai rintocchi sulla porta, ma data l’insistenza mi sono avvicinato per vedere chi fosse. Prima di aprire, mi sono sistemato la cravatta e abbottonato la camicia, che era fuori dai pantaloni.

Nafessa era lì, in piedi sulla soglia, con un libro in mano.

 

“Finalmente l’ho finito”, mi stava dicendo mentre, contemporáneamente, cercava di sorridere e di mostrarmi il libro che aveva in mano.

-“Marques mi ha fatto sudare le sette camicie”

 

Ottobre, 2019

 

Sherzod Artikov

 

Traduzione a cura di Elisabetta Bagli


Sherzod Artikov è nato nel 1985 nella città di Marghilan, in Uzbekistan. Si è laureato al Ferghana Polytechnic Institute. Il suo lavoro consiste principalmente nello scrivere racconti.

Il suo primo libro “Sinfonía d’Autuno” è stato pubblicato nel 2020. I suoi lavori precedenti sono stati pubblicati sulla stampa nazionale, così come su riviste russe e ucraine quali “Camerton”, “Topos” e “Autograph”. È stato uno dei vincitori del premio nazionale di prosa “My Region Pearl”.

Ha collaborato anche su siti web di letteratura dalla Serbia (Petruska Nastabma) al Montenegro (Nekazano), dagli Stati Uniti (Makonim), al Kasajastan (Dactyl) e alla Turchia (Dilimiz ve edebiyatimiz).

 

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